Pubblichiamo un contributo estremamente interessante discusso da Marco Rossi al Convegno “1918-2018: guerre di oggi, guerre di ieri”, tenutosi a Gorizia, 13 ottobre 2018 sul tema della diserzione, un’opzione sempre valida per gli uomini e le donne coinvolte con lo spopo di mettre fine alle guerre. Marco Rossi si interessa da tempo, come libero ricercatore, della storia dei conflitti di classe e delle insorgenze sociali nella prima metà del Novecento, partecipando a progetti ed iniziative editoriali. Collabora al portale di storia contemporanea Toscana Novecento ed ha, tra l’altro, pubblicato i saggi Capaci di intendere e di volere (2014), Gli ammutinati delle trincee (2018), La battaglia di Livorno (2021), Il rovescio della guerra (2022).
Il fante se ne frega di Gorizia puttana vuole solo la pace entro una settimana (Scritta su un cartello in una trincea sulla Bainsizza, 1917)
A distanza di cento anni, fanno ancora paura le ombre dei milioni di disertori, ammutinati, non-sottomessi che su tutti i fronti della Prima guerra mondiale si rifiutarono di obbedire, uccidere e morire per le rispettive patrie. In Italia nessuna riabilitazione storica – peraltro avversata da trasversali settori politici e vertici militari – è stata ancora sancita a livello istituzionale, ma tanto meno sarà pronunciata una riabilitazione etica dell’insubordinazione verso la guerra, neppure da quegli ambienti cattolici che hanno perorato la causa delle vittime.
Questo perchè la guerra non appartiene al passato, ma stringe sempre più da vicino il nostro vivere presente.
Per tale motivo, rileggere l’altra faccia della medaglia del centenario della cosiddetta Vittoria, accompagnato dalla solita retorica nazionalista del 4 novembre, rafforza le ragioni dell’antimilitarismo.
In Italia, la rimozione delle enormi dimensioni, raggiunte soprattutto nel 1917, dalla non-sottomissione alla guerra iniziò quasi subito ed appare significativo quanto accadde nel novembre 1921 quando, a tre anni dall’armistizio, lo Stato italiano volle commemorare i circa 600 mila militari italiani caduti, attraverso l’invenzione mitica della cerimonia del Milite Ignoto.
La Commissione ufficiale – composta da militari decorati di diverso grado – incaricata di recuperare 11 salme tra le quali ne sarebbe stata scelta una per la tumulazione solenne presso l’Altare della Patria a Roma, si recò nelle aree dove si erano svolte le battaglie più cruente, raccogliendo nei cimiteri locali o nelle sepolture isolate la salma non identificata di un soldato italiano per ogni zona prescelta: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele e Castagnevizza del Carso.
Ma, dietro questa facciata pietosa, nella relazione presentata dalla Commissione al ministro della guerra Luigi Gasparotto, sui criteri seguiti per il reperimento e la selezione delle salme, si trova un eloquente appunto: «In merito all’esclusione dei territori dell’Alto e Medio Isonzo dalla nostra ricerca, si è ritenuto doveroso evitare sia pure il solo lontano sospetto, la pur minima ombra di dubbio, che a rappresentare i nostri eroici caduti fosse una salma che non ne avesse i requisiti».
Con tale macabra quanto paradossale espressione, si voleva alludere all’elevato rischio che tra le undici salme prescelte potesse esserci quella di un fucilato per decimazione. Infatti, la zona compresa tra Medio e Alto Isonzo corrispondeva a quella che si estende da poco sopra Gorizia al monte Rombon. Ossia il teatro delle tragiche undici “spallate” sull’Isonzo costate, secondo i dati ufficiali, 77.048 morti, 375.889 feriti e 128.883 dispersi. Ed era, soprattutto, il fronte degli ammutinamenti, delle diserzioni e delle decimazioni; quello della II Armata e dei carnai di Cadorna che recavano i nomi di Bainsizza, San Gabriele, Santo, Vodice, Kobilek, Santa Maria, Veliki Vrh, Monte Nero, Monte Rosso. Lo stesso della conca di Plezzo e di Caporetto, dove durante la disfatta, erano morti in almeno 13 mila, tra i quali un numero imprecisato ma comunque elevato a seguito di esecuzioni sommarie (secondo fonti socialiste dell’epoca, addirittura 5 mila) contro gli «sbandati», ritenuti dal generale Cadorna colpevoli di codardia.
Dati per dispersi e finiti in qualche fossa comune, i “decimati” non potevano più essere riconosciuti come tali; per cui la Commissione, nell’ansia di separare i cadaveri illegali da quelli legali, decise così di scartare due terzi del fronte dell’Isonzo, nella consapevolezza che in quelle aree le tombe ignote dei fucilati per diserzione o ammutinamento fossero talmente numerose da non poter essere evitate.
Così come, non casualmente, le salme raccolte furono undici, giusto per evitare ogni imbarazzante riferimento al “sistema” della decimazione, già bandito dal Codice penale militare ma reintrodotto da Cadorna, capo di stato maggiore, con una circolare telegrafica del 1° novembre 1916.
Paradossalmente, va comunque osservato che a scegliere tra le 11 bare quella del Milite Ignoto fu designata la madre del triestino Antonio Bergamas, il cui corpo non era mai stato ritrovato, che nel 1916 per arruolarsi nell’Esercito italiano quale volontario irredentista aveva comunque disertato da quello austriaco.
Nel corso del conflitto, il fenomeno della diserzione, così come quello della renitenza, assunse dimensioni di massa in tutte le nazioni belligeranti e su ogni fronte, accompagnandosi alle rivolte collettive e agli atti di insubordinazione.
Seppure motivato da ragioni diverse, più o meno consapevolmente di carattere politico, il rifiuto della guerra attraverso la scelta della diserzione – sia con resa al nemico che con il ritorno all’interno dei rispettivi paesi – riguardò l’intero periodo bellico, ma indubbiamente il 1917 fu l’anno in cui assunse dimensioni maggiori, dal fronte francese a quello italiano, oltre alla dissoluzione dell’esercito imperiale russo che, a seguito degli eventi rivoluzionari, dal marzo all’ottobre 1917 vide – secondo il generale Duchonin, ultimo comandante in capo dell’esercito zarista – almeno due milioni di disertori.
NELL’ESERCITO ITALIANO
Le statistiche ufficiali inerenti le Forze armate italiane sono abbastanza indicative, ma è utile fornire alcune informazioni aggiuntive per interpretarle correttamente.
La prima necessaria premessa riguarda le due differenti opzioni che contrastavano con l’obbligo della leva militare. La renitenza era la scelta per cui un cittadino italiano non rispondeva alla famosa “cartolina”, ossia alla chiamata o al richiamo alle armi; tale possibilità, specialmente per quanti risiedevano all’estero – soprattutto come immigrati – era relativamente più semplice in quanto dovevano soltanto evitare di rimpatriare, subendo condanne in contumacia. Coloro che, invece, si trovavano sul territorio italiano per sottrarsi alle ricerche dei carabinieri dovevano darsi “alla macchia”, tra fughe, clandestinità e nascondigli.
Furono circa 470 mila i procedimenti penali intentati dalla Giustizia militare contro altrettanto renitenti, dei quali almeno 370 mila riguardanti residenti all’estero che avrebbero beneficiato dell’amnistia post-bellica (2 settembre 1919). Nel caso di arresto da parte dei Carabinieri, i renitenti venivano tradotti in carcere, denunciati e quindi consegnati al Consiglio di leva o al Distretto militare competente per l’arruolamento e l’invio coatto al fronte.
L’atto della diserzione – tradizionalmente propagandata dagli anarchici – riguardava, invece, coloro che già si trovavano in divisa – in molti casi dai tempi della guerra di Libia – e incorporati nei rispettivi reparti. Il reato assumeva una gravità giuridica maggiore, specie se commesso «in presenza del nemico», «in faccia al nemico» o addirittura «con passaggio al nemico», tanto da prevedere la pena di morte e lo stigma morale del tradimento verso la patria, esteso pure alle incolpevoli famiglie, sanzionate con la privazione del già misero sussidio (50 centesimi al giorno) e, talvolta, con con la confisca dei beni.
Infatti, come osservato dagli storici Enzo Monticone e Alberto Forcella, «la diserzione fu in ogni caso il reato che maggiormente impressionò il comando supremo, non soltanto per la sua consistenza numerica complessiva, bensì per il crescere progressivo dei casi».
Complessivamente, le denunce per il reato di diserzione furono 189.425; di queste, 162.563 portarono a un processo. Le condanne ammontarono a 101.665, compresi 15.096 ergastoli, riguardanti anche soldati complici dei disertori. Le condanne a morte pronunciate dai Tribunali militari furono 3.495, delle quali 391 eseguite tramite fucilazione. Fino all’estate del ’17 la pena di morte era prevista solo per quanti mostravano «un consapevole rifiuto della vita di guerra», ma successivamente fu estesa ai casi in cui il reato era stato compiuto non soltanto in prima linea, ma anche da reparti diretti alla prima linea.
Inoltre, sempre secondo la stessa direttiva del Comando supremo del 14 agosto 1917, sarebbe bastato un ritardo di 24 ore nel rientro dalla licenza per far scattare la denuncia per diserzione.
Imprecisato resta invece il numero delle esecuzioni sommarie, senza processo, avvenute al fronte o nelle immediate vicinanze. Dalle ricerche degli storici Marco Pluviano e Irene Guerrini emergono 34 fucilati sommariamente per diserzione e persino 9 esecuzioni per «istigazione alla diserzione», oltre a tre fucilazioni collettive di cui si ignora l’entità numerica.
Un caso particolare è quello della fucilazione, alla schiena, ordinata dal famigerato generale Andrea Graziani ed eseguita dai Carabinieri nel vicentino il 12 giugno 1918, nei confronti di 8 soldati fuggiaschi appartenenti alla Divisione cecoslovacca, già ritenuti passibili di fucilazione da parte austriaca in quanto ritenuti disertori.
Una rappresaglia indiretta del governo italiano nei confronti dei prigionieri italiani, tutti sospettati di diserzione, ebbe un risvolto non meno tragico, dato che la negata assistenza statale contribuì alla morte di circa 120 mila internati nei campi di prigionia austro-ungarici.
Nonostante resti una pagina poco conosciuta, contro la diserzione venne mobilitata pure la psichiatria che riteneva il rifiuto della guerra una manifestazione di anormalità psichica congenita.
Come si rileva dalla lettura di un intervento nel 1917 sulla rivista «Quaderni di psichiatria», nei disertori venivano ricercati i segni della loro degenerazione morbosa, quali «deformità craniche, asimmetria facciale, segni di arresto di sviluppo, ectopia testicolare». Emblematico anche il profilo dei disertori stilato dallo psichiatra Mario Carrara, allievo e genero di Lombroso: «Son criminali, pregiudicati che han violato la disciplina militare come avean mancato prima ai doveri civili, per una costituzione anomala psicoantropologica».
Non meno interessante è la realtà “sommersa” che, all’interno del paese, vide renitenti e disertori nascondersi trovando numerose complicità popolari e sovversive.
Infatti, come sottolinea la storica Simonetta Ortaggi Cammarosano, nonostante l’avversione dei dirigenti riformisti, «l’idea della diserzione, cara agli anarchici e disdegnata dai giovani rivoluzionari socialisti come posizione individualistica, di “falso estremismo”, esercitava un ascendente anche in ambiente socialista» e tra i ceti proletari appariva coerente con le posizioni neutraliste e disfattiste.
Fu così che in numerose zone d’Italia e, in particolare, nel Meridione si costituirono bande anche armate di giovani intenzionati a sottrarsi al fronte.
In Sicilia, secondo alcuni studi, furono oltre 30 mila i renitenti e i disertori principalmente nelle province di Palermo, Agrigento e Trapani. Molti di loro si rifugiarono in zone rurali e zolfare interdette alle forze dell’ordine, vivendo di espedienti e solidarietà. Il generale Angelo Gatti, riportando un dialogo con Cadorna, riferisce di 20 mila disertori in bande all’interno dell’Isola. Secondo un rapporto dei Carabinieri reali, in data 30 settembre 1916, nelle province sotto la giurisdizione della Legione territoriale di Palermo si contavano 5.396 disertori e 64.523 renitenti, mentre il senatore liberale Libertini il 25 giugno 1917 riferì al Comitato segreto sulla condotta della guerra della presenza di almeno 1.500 disertori nelle quattro province della Sicilia occidentale.
Seppure con dimensioni minori, situazioni analoghe sono note in Veneto, Liguria, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Lazio, Puglia, con frequenti conflitti a fuoco tra renitenti e forze dell’ordine. In alcuni casi, come a Torino e Livorno, circostanze simili si verificarono anche in quartieri proletari, dove i disertori trovavano protezione.
NELL’ESERCITO FRANCESE
Anche nell’esercito francese, il fenomeno della diserzione raggiunse il suo apice nel 1917 con circa 27 mila disertori nel corso di quell’anno, contemporaneamente ai grandi ammutinamenti che, fra aprile e ottobre, videro circa centomila poilus in rivolta. Questa iniziata sul fronte dell’Aisne, lungo lo Chemin des Dames, dilagò in Lorena e Champagne.
Secondo lo storico francese Guy Pedroncini ben 49 divisioni di fanteria – ossia il 43% dell’esercito – furono coinvolte: nove si ammutinarono completamente, quindici ebbero gravi episodi di ammutinamento e venticinque conobbero isolati, ma ripetuti, episodi di ammutinamento. Alcuni reparti, sventolando bandiere rosse, abbandonarono il fronte tentando di marciare in armi su Parigi, su treni e camion. Complessivamente si contarono 155 insubordinazioni collettive che interessarono anche reparti coloniali, senegalesi, britannici e russi.
Infatti, a La Courtine, oltre 600 soldati della 1ª Brigata russa si ribellarono e resistettero dal 10 al 18 settembre all’assedio e alle cannonate “alleate” perchè dopo la Rivoluzione di febbraio non intendevano più combattere.
A titolo d’esempio, nel rapporto segreto al governo del 28 maggio, il generale Petain segnalava, al 21 maggio: nel 97° Rgt. Fanteria 110 ammutinati; al 159° una compagnia; al 57° battaglione Cacciatori 145 ammutinati e 98 disertori; al 60° Btg. Cacciatori 300 ammutinati e 75 disertori; al 61° Btg. Cacciatori 250 ammutinati e 25 disertori. Lo stesso generale aggiunse che «il pericolo che 57 divisioni tedesche ci attacchino è sensibilmente meno grave della demoralizzazione del nostro esercito».
NELL’ESERCITO AUSTRO-UNGHERESE
Nel multietnico esercito austro-ungarico, invece, l’anno più critico fu il 1918, con diserzioni di massa tra le truppe e gli ammutinamenti, con connotazioni soviettiste, dei marinai nelle principali basi adriatiche della flotta a Cattaro, Pola e Sebenico. A Pola, oltre a scioperi e agitazioni, ci fu un tentativo di diserzione via mare, con una torpediniera, stroncato con la fucilazione di due sottoufficiali e undici marinai processati per rivolta e diserzione.
I primi due episodi significativi di diserzione collettiva erano avvenuti sul fronte orientale nella primavera del 1915 quando due reggimenti, composti in prevalenza da truppe ceche, collassarono durante i combattimenti con l’esercito russo e i superstiti si dettero prigionieri. Nel 1917, oltre al verificarsi di diverse ribellioni tra le truppe sul fronte serbo-albanese, sul fronte italiano andò aumentando il numero dei soldati che disertavano per darsi prigionieri. In particolare, nell’estate del 1917 una compagnia boema si arrese agli italiani sul Carso, intonando l’Internazionale.
Fin dai primi mesi del 1918, oltre ad ammutinamenti e rivolte sul fronte italiano da parte di soldati dell’esercito austro-ungherese, prevalentemente di lingua slava, le diserzioni aumentarono in maniera impressionante, come si apprende anche dalle memorie dell’ufficiale austriaco Fritz Weber, in Tappe della disfatta. Secondo il generale Ronge del Comando supremo austriaco, nell’agosto del 1918 il numero dei disertori era salito a 100 mila. A fine estate 1918 si contavano circa 40 mila disertori in Galizia, 70 mila in Croazia-Slavonia e Bosnia-Herzegovina, 60 mila in Ungheria, 20 mila in Boemia e Moravia, 40 mila nei Länder alpini e prealpini, per un totale di circa 230 mila uomini.
Come rileva lo storico fiumano Giacomo Scotti, a disertare erano soprattutto reclute slovene, croate, bosniache dei “Battaglioni di marcia” durante i trasferimenti verso il fronte ed a queste si aggiunsero ex-prigionieri reduci dalla Russia nuovamente arruolati che, secondo gli apparati di polizia, «divulgavano propaganda bolscevica».
Decine di migliaia di disertori si dettero alla macchia sui monti della Croazia, della Serbia e della Bosnia, costituendo gruppi armati, anche di cannoni, conosciuti come Squadre verdi (o Quadro verde).
Secondo quanto riferisce la storica Marina Rossi, «anche le città del litorale pullulano di renitenti alla leva e di transfughi di ogni tipo, più spesso sostenuti dal compiacente appoggio della popolazione. A Trieste i disertori si dirigono istintivamente nel borgo operaio di S. Giacomo e nella sottoproletaria Cittavecchia, i rioni cioè che, tramite la solidarietà di classe e la pratica dell’arrangiarsi, offrono maggiori possibilità di sopravvivenza».
Di questa compiacenza ne è riprova pure un canto delle donne triestine con questi versi: Marciam, marciam / marciam, mi bate il cuor. / S’acende la fiama, / la fiama de l’amor / quando vedo un disertor / scampar ! / / Lontan, lontan / xe i nostri disertor / S’acende la fiama …
Tornando all’inizio, si può concludere accogliendo una suggestione, suggerita dallo storico Cesare De Simone. Dopo la tumulazione al Vittoriano del Milite Ignoto venne deciso che la sua tomba sarebbe stata per sempre onorata da un picchetto armato e che per i primi dieci anni tale incarico sarebbe stato affidato ai Carabinieri, forse nel non del tutto fugato dubbio che poteva essere un decimato ignoto.