Come in tante città italiane, anche a Torino il 4 novembre si terrà una iniziativa di piazza per dire che: “Il 4 novembre non è la nostra festa”. La Scuola per la pace partecipa al presidio convocato dal Coordinamento contro la guerra e chi la arma e dall’Assemblea Antimilitarista il 4 novembre, ore 15.30, in via Roma, 100 (di fronte alla sede del distretto aerospaziale del Piemonte), insieme con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, con il Coordinamento AGiTe Piemonte e con altri soggetti pacifisti e antimilitaristi, “per opporci a tutte le guerre, per rifiutare la militarizzazione della scuola e delle nostre vite, per rivendicare il diritto alla pace nella scuola e nella società”.
In allegato anche un articolo, che può essere usato per la didattica (specie in Pedagogia), sul maestro pacifista Célestin Freinet, ferito a Verdun nella Prima Guerra Mondiale, prigioniero in campo di concentramento nella Seconda Guerra Mondiale e fondatore del Movimento di Cooperazione Educativa che tanta importanza ha avuto per l’attivismo pedagogico in Italia e a Torino.
Contro la retorica militarista, vogliamo una scuola per la pace
«’Patria’ si fa chiamare lo Stato ogni volta che si accinge a uccidere», F. Dürrenmatt
Nel luglio scorso il Senato ha approvato – senza nemmeno un voto contrario! – il Disegno di legge per la Istituzione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate: obiettivo del provvedimento, che deve ancora passare dall’approvazione definitiva alla Camera, è ripristinare la “festa nazionale” del 4 novembre, data dell’armistizio che conclude il primo conflitto mondiale sul fronte italiano.
Diversamente da quanto vorrebbe imporci l’ipocrisia istituzionale, la Scuola per la Pace ritiene che nella giornata del 4 novembre ci sia ben poco da celebrare, men che meno le Forze Armate e l’Unità nazionale.
La prima guerra mondiale fu una tragedia di proporzioni immani: circa dieci milioni di caduti sui campi di battaglia, oltre sei milioni e mezzo di civili deceduti per cause direttamente riconducibili al conflitto, almeno un’altra decina di milioni di vittime tra feriti e dispersi. La drammaticità dell’ecatombe nulla ha a che fare con la retorica della «difesa della Patria», espressione grottesca – se riferita al primo conflitto mondiale – in cui ci si imbatte nella lettura del testo del DDL.
Sin dalle premesse la partecipazione italiana al conflitto ha ben poco di glorioso e molto di cui vergognarsi. Nel maggio del 1915, facendo leva sulla campagna di agitazione nelle piazze promossa dai nazionalisti, il governo italiano di Salandra obbliga di fatto il Parlamento ad approvare a scatola chiusa l’ingresso in guerra a fianco dell’Intesa. A Londra, poche settimane prima, gli emissari governativi italiani avevano siglato un patto segreto con la Francia e la Gran Bretagna. Sono mere ragioni di espansionismo imperialista a trascinare il paese – la cui opinione pubblica era in prevalenza schierata per la neutralità – in una guerra di aggressione travestita da lotta di liberazione nazionale. Altro che «difesa della Patria»!
E così, grazie a una sorta di colpo di Stato, ordito da monarchia e governo, l’Italia, al pari delle grandi potenze europee, può partecipare al massacro: un tripudio per il settore industriale che vedrà moltiplicati esponenzialmente i profitti, una tragedia per le classi subalterne di tutta la penisola. La guerra, ieri come oggi, è un affare economico per chi la promuove e la celebra.
Ai milioni di soldati di leva, inviati al fronte come carne da cannone, si sommano lavoratrici e lavoratori dell’industria che, nelle fabbriche militarizzate, sono costretti a subire il duro disciplinamento imposto dall’economia di guerra. È sospesa la libertà di organizzazione sindacale, sono cancellate le conquiste sociali dei decenni precedenti: perché la guerra, ieri come oggi, significa compressione dei diritti.
Il disprezzo della vita umana mostrato dalle alte gerarchie dell’esercito è evidente. Alle offensive suicide volute da Cadorna, in cui muoiono centinaia di migliaia di soldati per avanzare di qualche manciata di metri, si sommano le circolari in cui si autorizza la decimazione o la punizione collettiva dei reparti che non si mostrano abbastanza coraggiosi. I disertori catturati sono fucilati dai carabinieri appostati alle spalle del fronte. In guerra, ieri come oggi, i diritti dell’individuo sono annientati in nome di una presunta ragion di stato.
Ma si soffre anche nelle retrovie, dove la popolazione civile è stremata dal razionamento e dai ritmi massacranti di lavoro nelle fabbriche. Nell’agosto del 1917 a Torino scoppiano rivolte popolari guidate da donne e giovani che chiedono “pane e pace”, sfidando la forza pubblica che uccide decine di manifestanti. La guerra, ieri come oggi, scarica i suoi costi sulla povera gente.
Nell’ottobre del 1917, per prevenire ulteriori rivolte, un decreto governativo introduce il “reato di disfattismo” che vieta di esprimere pubblicamente considerazioni negative sull’andamento della guerra e impedisce di criticare il governo. Già dall’inizio del conflitto erano entrati in vigore la censura sui giornali e il controllo capillare della corrispondenza. Cessa così di esistere la libertà di espressione in nome dell’interesse nazionale: perché la guerra, ieri come oggi, significa reprimere il dissenso, soffocare il pluralismo.
Ancora peggiore è l’eredità della guerra: un vero e proprio trauma collettivo. L’esaltazione istituzionale della violenza, coltivata durante il conflitto, sarà il brodo di coltura del nascente fascismo. Il mito dannunziano della “vittoria mutilata”, la celebrazione dei caduti come “martiri della patria”, la retorica della “aristocrazia delle trincee”, l’odio contro i “nemici della nazione” sono i pilastri su cui si fonda una buona parte del discorso fascista. La guerra cancella così ogni sfumatura nel dibattito pubblico, tutto è ridotto alla logica binaria “amico/nemico”.
Sono queste solo alcune delle ragioni storiche che, in occasione del 4 novembre, ci impediscono, come insegnanti, di celebrare acriticamente l’Unità nazionale e le Forze armate. Alla retorica della patria, astratta e istituzionale, preferiamo gli appelli concreti per la pace pronunciati dal socialista francese Jean Jaurès, assassinato alla vigilia dell’ingresso in guerra del suo paese. Ci piace presentare ai nostri studenti la concretezza della prosa di Erich Maria Remarque, strappato dai banchi di scuola e scaraventato, ancora diciottenne, sul fronte occidentale. Amiamo consigliare la visione di Uomini contro di Francesco Rosi, una pellicola a lungo accusata di “vilipendio delle forze armate”, ma, di fatto, direttamente ispirata all’opera memorialistica di Emilio Lussu, giovane ufficiale volontario che imparò sul campo di battaglia l’assurdità della guerra. E ancora, nelle nostre riflessioni pedagogiche, ci ispiriamo a Célestin Freinet ferito nella battaglia di Verdun e, in seguito, sostenitore di un’educazione non coercitiva e non autoritaria.
A indurci a rifiutare le celebrazioni del 4 novembre ci sono però anche ragioni che derivano da precise contraddizioni che agitano il tempo presente. Osserviamo attorno a noi crescere un clima preoccupante di sostegno alla guerra: le vicende dei due più gravi conflitti in corso – quello israeliano-palestinese e quello russo-ucraino – ce lo ricordano ogni giorno. Ci indigna assistere alla crescita degli stanziamenti per le spese militari, mentre sono tagliati il welfare, i trasporti, la sanità e le pensioni. Ci inquieta assistere alla normalizzazione della presenza delle Forze Armate nelle scuole, sempre più coinvolte, con protocolli e accordi ministeriali, in variegate progettualità didattiche.
Per questo saremo quindi in piazza il 4 novembre per opporci a tutte le guerre, per rifiutare la militarizzazione della scuola e delle nostre vite, per rivendicare il diritto alla pace nella scuola e nella società.
LA SCUOLA PER LA PACE – TORINO